La nuova infografica di Unicusano sulla crisi climatica analizza la situazione italiana e globale sull’impatto dei comportamenti degli ultimi 100 anni, suggerendo cambiamenti e ipotizzando implicazioni future
Un divario di 29 anni colmato da una percentuale del 54%. Parliamo di emissioni di gas serra globali causate dall’uomo dal 1990 al 2019 ed è questo il numero spaventoso che non lascia alcun dubbio: siamo davanti ad una crisi potenzialmente catastrofica e non stiamo facendo niente per evitarla.
170 anni dopo un aumento delle temperature di 1°C, l’allarme degli scienziati è più forte che mai: se non limitiamo i danni, entro il 2030 il riscaldamento globale toccherà picchi di +1,5/3°C con conseguenze inaspettate.
La soluzione governativa per mettere una toppa ai comportamenti superficiali di uomini e aziende degli ultimi anni arriva dalla COP 28, con implicazioni economiche tuttavia non indifferenti. Se è vero, infatti, che la strategia del superamento temporaneo della soglia di 1,5°C può aiutare, è necessario che vengano implementati metodi e tecnologie (costosi) in grado di rimuovere la maggior quantità di CO2 dall’atmosfera riversandola nel minor tempo possibile in mari, vegetazione e terreni.
Il progetto degli Stati Membri è dunque questo: raggiungere il picco delle emissioni entro il 2025 per poi ridurlo del 43% entro il 2030 e del 60% entro il 2035.
Nel frattempo, gli Overshoot Days continuano a bussare alle porte dei Paesi di tutto il mondo. È stato il Qatar, nel 2023, il primo a esaurire le risorse rinnovabili che la Terra è in grado di rigenerare in 365 giorni (10 febbraio), seguito da Lussemburgo, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti. In Italia, è stato il 15 maggio a sancire l’overshoot: in soli quattro mesi e mezzo abbiamo consumato tutto. Un aspetto di cui tener conto il prossimo 19 maggio, quando inizieremo a bruciare in preoccupante anticipo anche le risorse del 2025.
La colpa, tuttavia, è di tutti: persone, aziende, istituzioni. Le prime per i comportamenti poco virtuosi, le seconde e le terze per negligenza reiterata.
L’utilizzo della plastica, lo spreco alimentare e la questione cibo in generale ne sono un esempio lampante. Se da un lato sono 5,25 i trilioni di pezzi di plastica che, da anni, navigano nei nostri mari contribuendo alla creazione di isole di plastica (con estensioni che toccano i 10 milioni di chilometri quadrati), dall’altro, a livello globale, si registra uno spreco alimentare del 30% del cibo prodotto. E di ciò che mangiamo, invece, almeno 5 grammi a settimana sono microplastiche.
La Terra del futuro spaventa e a ben vedere: superamento della soglia della temperatura entro i prossimi 10 anni, clima simile a quello del Sahara per 3,5 miliardi di persone entro 50 anni e un aumento delle temperature estive di +5°C entro il 2070. E la lista continua: superamento della soglia di tolleranza del calore (con rispettivo aumento del tasso di mortalità), estinzioni, sfollamento di più del 30% della popolazione europea che, oggi, vive entro 50 km dalle coste.
A pagare le conseguenze di inondazioni, siccità, innalzamento dei mari, erosione dei suoli, ondate di calore, come sempre, saranno le minoranze: piccoli agricoltori, donne, disoccupati, popolazioni indigene, Paesi poveri e in via di sviluppo dove l’agricoltura è vita, persone che vivono in aree urbane a basso reddito.
La soluzione c’è e passa irrimediabilmente da una rivoluzione sociale, culturale, politica ed economica, ma dobbiamo fare in fretta. Decarbonizzare la società, seguire diete equilibrate a base vegetale, optare per una pianificazione urbana a beneficio di spazi verdi, ridurre l’uso della plastica e cambiare i comportamenti d’acquisto sono solo l’inizio di quella che deve essere una trasformazione radicale che parta congiuntamente dal basso e dall’alto, dall’educazione alla politica. Un colpo al cerchio e uno alla botte.